La poesia della clinica: dall’identietto all’inconsciato

Il 27 Marzo 2021 Mauro Manica e Maria Grazia Oldoini hanno presentato, in uno dei seminari mensili organizzati dalla sede milanese dell’AIPA, il loro libro Fearful Symmetry – Spaventose Simmetrie.

In quella occasione, al termine dell’appassionata discussione che si è svolta tra i partecipanti al seminario dopo aver ascoltato l’intervento introduttivo di Manica e il caso clinico presentato da Oldoini, Mauro Manica ci ha letto le sue riflessioni suscitate da un’intervista a Clint Eastwood,  nella quale l’attore e regista americano svela di essere stato in analisi con Bion negli anni settanta, quando Bion si trasferì a Los Angeles. Benché l’autenticità dell’intervista sia incerta, ciò non la priva del fascino di una narrazione ‘verosimile’, che ha offerto a Mauro Manica l’opportunità di una serie di riflessioni sul modo in cui Bion viveva l’esperienza psicoanalitica con i suoi pazienti, una modalità nella quale possono essere riconosciute significative analogie con molti concetti della Psicologia Analitica. Da molti anni infatti Mauro Manica coltiva uno studio approfondito dei testi junghiani, ritrovandovi sotterranee corrispondenze con le idee sviluppate da Bion e dagli autori post-bioniani.

Abbiamo così chiesto a Manica l’autorizzazione a pubblicare nel nostro sito il testo del suo intervento sull’intervista di Clint Eastwood, permesso che lui ci ha gentilmente concesso e del quale lo ringraziamo.

Mauro Manica è psichiatra e psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e della International Psychoanalytic Association. Oltre a vari contributi su riviste scientifiche, ha pubblicato diversi volumi sulla psicoanalisi delle patologie gravi. Nel 2009 ha ricevuto il Tycho award, un premio assegnato dalla International Psychoanalytic Association. E’ stato redattore della Rivista di Psicoanalisi. Vive e lavora a Genova.


La poesia della clinica: dall’identietto all’inconsciato
(Mauro Manica)

“Inconsciato” [1]= unbewusst. Ah, se solo ci fosse una

                                                                   parola simile per la “identificazione proiettiva”;

                                                                  “identietto”[2], in contrasto con “inconsciato”

                                                                                         W.R. Bion (1992), p. 349

All’inizio degli anni ’70, a poco più di quarant’anni, un uomo indubbiamente di grande successo, e apparentemente realizzato dal punto di vista personale e professionale[3], decide di iniziare un’analisi. E’ un regista, un attore, un produttore cinematografico e anche un compositore musicale di discreto valore. Si è sposato a ventitre anni, e dopo aver avuto una figlia da una relazione extraconiugale, si riconcilia con la moglie da cui ha altri due figli. Sempre relazionalmente inquieto, divorzia e si lega per quattordici anni con una collega. Ma ha nuovamente una relazione extraconiugale con una assistente di volo, con cui fa altri due figli. Dal 1990 al 1995, crea una nuova coppia con un’altra collega, da cui viene alla luce un’altra bambina. Nel 1996 sposa una giornalista, da cui ha, ancora una volta, un’altra figlia. Nel 2013 ha 73 anni, e si  separa di nuovo; ha altre relazioni sentimentali più o meno conosciute. Si impegna anche politicamente, sebbene per il carattere dei personaggi che viene più spesso a interpretare, si trovi a essere giudicato dalla stampa come una sorta di reazionario e fascistoide. In realtà, si descrive nell’intero corso della sua vita come un “libertario”, registrato come repubblicano fin dal 1951, quando sostiene la candidatura di Dwight Eisenhower. Dà il suo appoggio a Nixon, sia nel 1968 sia nel 1972, ma poi ne critica aspramente la moralità dopo lo scandalo Watergate. Non si considera comunque un “conservatore”, è contrario a ogni forma di aumento sulla tassazione, e sul piano dei diritti civili è favorevole all’eutanasia, alle nozze omosessuali e all’aborto. Pur avendo sempre appoggiato i candidati Repubblicani alle elezioni presidenziali (tranne nel 1992, quando votò l’indipendente Ross Perot), ha in più occasioni appoggiato candidati Democratici nelle elezioni locali per il governo della California. Come unico impegno politico effettivo e diretto, è stato eletto sindaco “indipendente” di Carmel-by-the-Sea, in California dall’aprile 1986 fino al gennaio 1988.

Stiamo parlando di un uomo completamente libero di essere se stesso? O di un uomo impegnato nella definizione di una propria identità o, come direbbe Jung, alla ricerca della propria individuazione?

Della sua infanzia sappiamo che era nato a San Francisco, in California, il 31 maggio 1930, da una famiglia protestante di origini miste: irlandesi, scozzesi, olandesi e inglesi. Il padre Clinton Senior (1906-1970) era operaio in una fabbrica d’acciaio, mentre la madre (1909-2006) era impiegata all’IBM. Pare che il giorno della sua nascita le ostetriche dell’ospedale l’avessero soprannominato Samson (“Sansone”) per il suo grande peso alla nascita, ben 5 chili e 200 grammi.

Essendo il padre costretto a trasferirsi frequentemente alla ricerca di lavoro lungo la costa occidentale, a causa della Grande Depressione, il paziente si è trovato a cambiare dieci scuole diverse nel corso dei suoi primi dieci anni di istruzione scolastica. Forse anche per questo pare che sia cresciuto timido e introverso, e forse anche in ragione di un lungo periodo in cui era stato affidato alla nonna che aveva un allevamento di galline a Sunol, un paesino californiano di circa mille anime.

Quando il padre riesce a trovare un lavoro stabile a Oakland nella Container Corporation of America, il giovane Clinton può iscriversi alla Oakland Technical High School dove si impegna a essere uno studente diligente con il compito di non deludere i propri genitori a cui sembra tenere moltissimo. Si coinvolge anche nello sport, ottenendo un discreto successo nella locale squadra di basket grazie anche alla sua statura (1 metro e 93 centimetri).  Nei mesi estivi si prodiga cercando di aiutare la famiglia, lavorando come guardia forestale, taglialegna, benzinaio e magazziniere.

Ottenuto il diploma nel 1948, decide di rendersi indipendentemente dalla famiglia, anche per evitare di doverla seguire in Texas, dove si è stabilita per un ennesimo cambiamento di lavoro del padre. Decide di rimanere in California e accetta qualsiasi occupazione pur di non dover tornare in famiglia e per poter ritornare a scuola per conseguire un diploma in musica. Riesce anche a incidere un disco (Unknown Girl) per una piccola casa discografica. Ma il progetto del diploma musicale viene interrotto dal richiamo nell’esercito degli Stati Uniti. Fortunatamente, viene destinato a Fort Ord, in California per l’addestramento, e riesce a non partire per la guerra in Corea, grazie alle sue doti sportive e venendo assegnato alla gestione della piscina e all’organizzazione dei corsi di nuoto per le reclute.

E’ stato verso la fine del servizio militare che, convinto da alcuni amici, ha deciso di presentarsi per un provino come attore presso gli studi della Universal Pictures dove, con sua grande sorpresa viene messo subito sotto contratto. Prima recita in vari ruoli minori, poi nel 1959 ottiene la sua prima parte da protagonista in una serie televisiva western, Gli uomini della prateria, che gli consente una certa notorietà.

Come sicuramente avrete capito, il paziente di cui vi sto raccontando è Clint Eastwood Jr., un’icona proteiforme, camaleontica, ma senza dubbio geniale del cinema americano. L’attore che grazie agli spaghetti western di Sergio Leone e,  in particolare,  alla “trilogia del dollaro”  – Per un pugno di dollari (1964); Per qualche dollaro in più (1965); Il buono, il brutto, il cattivo (1966) –  è arrivato a un’enorme popolarità e successo internazionali. Infatti, dal 1968 in poi la sua carriera aveva incominciato a decollare: era stato chiamato a recitare in L’uomo dalla cravatta di cuoio (Coogan’s Bluff) diretto da Don Siegel e l’anno dopo era stato co-protagonista con Richard Burton in Dove osano le aquile (Where Eagles Dare).

Sempre nel 1969, aveva interpretato La ballata della città senza nome (Paint Your Wagon), un western basato su una commedia musicale andata in scena  a Broadway alcuni anni prima. E per quanto le parti musicali che Eastwood recitava, accanto a Lee Marvin e Jean Seberg, siano state ben accolte dalla critica, avevano invece scontentato il pubblico dell’attore, che lo vedeva ormai sempre più legato al ruolo dell’antieroe, del duro, del giusto senza scrupoli, del vendicatore spietato: “l’uomo senza nome”; “il texano dagli occhi di ghiaccio”;  fino ad arrivare negli anni ’70 al controverso “ispettore Callaghan (Dirty Harry)”; e ancora più tardi a “Il cavaliere pallido” (1985).

E per quanto la notorietà gli portasse diverse nuove occasioni, era ormai difficile per Clint Eastwood liberarsi dallo stereotipo del ruolo di “duro”, di attore freddo, monocorde, solo spietatamente carismatico. Leggendaria è la risposta che pare Sergio Leone desse a chi gli chiedeva perché gli piaceva Eastwood come attore: “Mi piace Clint Eastwood perché è un attore che ha solo due espressioni: una con il capello e una senza il cappello”.

Ma era veramente così? L’attore Clint Eastwood ha sempre avuto solo due espressioni? E quante ne ha avute l’uomo Clint Eastwood? Un uomo dalla vita sentimentale sempre tormentata e turbolenta, con diverse relazioni di coppia, da cui sono nati sette tra figli e figlie, da cinque donne diverse, affascinate poi tradite, lasciate e poi riprese, e poi ancora lasciate?

E quest’uomo che sembra affamato di vita, che pare divorare ogni istante  per poi fuggire da qualsiasi cosa possa veramente nutrirlo, anche dal punto di vista professionale pare insaziabile: tenta di sfuggire al ruolo commerciale che il Dirty Harry gli ha cucito addosso, ma poi a più riprese ci ricade; dal 1971 inizia anche la carriera di regista, cominciando con il film Brivido nella notte, e poi di produttore e di responsabile della colonna sonora dei suoi film.

Quale dolore mentale, quale insoddisfazione, o quale terrore senza nome (Bion, 1961) ha tentato di trasformare per una certa parte della sua vita Clint Eastwood Junior, senza poter rinunciare a una successione di identietti, di azioni che in qualche modo dismetriche lo portavano a non riuscire a sentire e a vivere le vere emozioni della sua vita?

 

L’analisi con Wilfred Bion

C.E.  All’inizio degli anni Settanta ero molto insoddisfatto del mio lavoro cinematografico. Nel 1969 avevo lavorato in un film musicale, intitolato Paint Your Wagon. Il film aveva venduto poco … . Ho ricevuto molte critiche e alcuni mi hanno addirittura suggerito di chiudere la mia carriera. È stato come un campanello d’allarme, e l’idea di non poter sfuggire ai film violenti con cui le persone mi identificavano mi deprimeva. Ero visto solo come una specie di cattivo ragazzo, un macho e altre brutte cose del genere.

Ne parlai con la mia amica Jane Fonda e lei mi confidò che per gli stessi motivi aveva intrapreso un’analisi e da allora la sua vita pareva avere avuto una svolta. Gli chiesi chi fosse questo analista, perché dubitavo di poter trovare un buon analista qui in California. Mi disse che si chiamava Wilfred Bion ed era un analista inglese, piuttosto famoso nell’ambiente psicoanalitico, appena arrivato da noi.

Mi decisi subito a fissare un colloquio ma curiosamente, quando chiamai il numero che Jane mi aveva dato, lui mi rispose di mandargli una lettera in cui gli spiegavo perché volevo iniziare un’analisi. Lo trovai strano e mi venne la strampalata idea che volesse analizzare la mia calligrafia. Così gli scrissi con la macchina da scrivere, solo poche righe e motivazioni all’osso. Non passarono due giorni che ricevetti la chiamata che mi assegnava un’ora.

In una delle tre supervisioni inedite, pubblicate in The W.R. Bion Tradition. Lines of Development – Evolution of Theory and Practice over the Decades (Levine, Civitarese, 2016), la supervisione A34, Bion ci offre una descrizione abbastanza drammatica dell’analisi, che coinvolgerebbe paziente e analista nella condivisione di una responsabilità tanto grave da far pensare all’impressione di trovarsi di fronte a un’ultima spiaggia. Nella supervisione del materiale clinico, infatti, ascolta dall’analista come il paziente avesse cercato di dare diverse risposte alla propria sofferenza senza mai essere riuscito fino a quel momento a trovare una vera soluzione per il suo dolore mentale: si è rivolto alla religione, si è legato sentimentalmente, ha cercato di essere un bravo bambino e un bravo studente, è diventato un medico, è diventato uno psichiatra, ma nulla è servito a liberarlo dal sentimento di “essere un fallito”.

Così, Bion attira l’attenzione dell’analista su un fatto che ritiene di estrema importanza: perché un paziente viene in analisi? E perché continua a tornare anche alle sedute successive? E’ una domanda che come analisti dobbiamo sempre porci. Forse il paziente si è sentito dire che “non ha niente di grave”,  che è “solo nevrotico” o “solo ipocondriaco”, che potrebbe “comprarsi una bella macchina” o “trascorrere una vacanza piacevole”; ma tutto quello che ha fatto nella sua vita non è servito a farlo stare meglio. Ha probabilmente paura di sentire dire dall’analista che sta diventando matto e che non esiste nessuna cura per la sua terribile malattia. Ma sono stati i tentativi di “cura” precedenti a non essere serviti, ed è per questo che un paziente si rivolge a un analista.

Allora, “Che cosa potrà dire l’analista al paziente, quando il paziente verrà a incontrarlo domani? (A34, p. 72)”, chiede Bion. E subito ci fa notare che, per quanto il passato abbia importanza, non si può fare nulla a proposito del passato. E’ sicuramente utile conoscere la storia del paziente, ma quello che deve veramente interessare è il presente e quanto accadrà nel futuro. E’ necessario riuscire a mantenere la curiosità per l’ignoto e disporre di intuizione per sentimenti che non hanno una base sensoriale, perché non possono essere né toccati, né visti, né uditi e neppure odorati. Rinunciando alla memoria, al desiderio, alla comprensione e alla percezione sensoriale, l’analista dovrebbe arrivare a intuire qualcosa di più e oltre a quanto il paziente fa nella sua vita e riesce a dire nel corso della seduta. Così, gradualmente si può arrivare a vedere meglio chi o che cosa è quella persona. E in questo modo, è possibile poco a poco permetterle di scoprirsi e aiutarla a scoprire se stessa. Si abitua sempre di più a essere ciò che è e a non essere così terrorizzata dalla persona che è stata. E si abitua di più perché anche l’analista è sempre più in grado di diventare l’esperienza emotiva del suo paziente.

E’ muovendo da queste idee che Bion, nel corso del primo contatto telefonico chiede al paziente Clint Eastwood di mandargli una lettera?

Forse voleva attirare la sua attenzione sul fatto che l’analisi è un gioco molto serio e anche pericoloso, perché potrebbe avere a che fare anche con la paura di impazzire: tipo che l’analista possa avere l’intenzione di analizzare la calligrafia del paziente per entrare di nascosto nella sua mente. Oppure Bion voleva tentare di intuire se Clint si sentisse di essere arrivato all’ultima spiaggia. In effetti, sembrava che avesse provato in ogni modo a risolvere il proprio disagio: aveva fatto lo studente diligente, il figlio che aiuta la famiglia; si era sposato e aveva interrotto diverse relazioni sentimentali; aveva avuto un numero considerevole di figli; aveva fatto l’attore, il regista, il produttore, il compositore  musicale. Ma tutto questo non sembrava aver placato la sua inquietudine.

Era veramente all’ultima spiaggia? O era solo afflitto dalla delusione narcisistica dovuta all’insuccesso del suo ultimo film, Paint Your Wagon?

Bastano, però, “poche righe” scritte a macchina e “motivazioni ridotte all’osso” perché il dottor Bion prenda la decisione di accettare questo nuovo paziente.

C.E.  Arrivai puntuale e fui accolto da un uomo molto serio, credo sulla settantina, della mia stessa altezza (1,93 cm). Era vestito all’inglese, con una giacca beige chiaro, una camicia bianca e un papillon blu. Mi indicò una sedia mentre si sedeva sulla sua poltrona, un lettino marrone chiaro alla sua destra. Lo guardai e notai che le sue folte sopracciglia si sollevarono quando mi chiese: “Lei che diavolo ci fa qui?”

“Lei che diavolo ci fa qui?”. Potrebbe essere l’espressione, per quanto insolita, usata da un analista che si domanda come mai un uomo apparentemente realizzato e di successo abbia deciso di intraprendere un’analisi. Ma trattandosi di Bion, non credo che ci si possa accontentare di una spiegazione così scontata. Innanzitutto colpisce il linguaggio: le parole, piuttosto che da un manuale sul colloquio psicoanalitico, sembrano tratte da una sceneggiatura della saga dell’ispettore Callaghan, qualcosa di più simile alla frase chiave del film Sudden Impact: “Go ahead, make my day” (“Coraggio, dà un senso alla mia giornata”)[4]. Allora quale demone potrebbe aver colto l’intuito (intuit) di Bion? Il diavolo che abita il paziente? La diabolicità dell’analista? Il fatto che l’analisi dovrà attraversare una dimensione infernale? Una sorta di nekya[5]?

Si potrebbe forse fare la congettura immaginativa che l’at-one-ment bioniano avesse colto il dramma di un uomo costretto al successo, forse “costretto all’onnipotenza” (Grotstein, 2007), prigioniero di una maschera che gli consentiva solo due espressioni (“una con il cappello e una senza il cappello”), soffocando la sua anima e il suo vero Sé.

Nel 1939 Jung aveva scritto:

una volontà di potenza inconscia […] si manifesta nel Cristo sotto forma di diavolo. I due aspetti appaiono con evidenza: l’aspetto oscuro e l’aspetto luminoso. Il diavolo vuole indurre Gesù a proclamarsi padrone del mondo. Gesù non vuol cedere alla tentazione e poi appare, grazie alla funzione (trascendente) risultante da ogni conflitto, un simbolo: l’idea del regno dei cieli, del regno spirituale, che prende il posto del regno materiale. Due cose sono unite in questo simbolo: il punto di vista spirituale del Cristo e il desiderio diabolico di potenza (p. 307).

E’ allora una “idea del regno dei cieli” quella che Clint Eastwood inconsapevolmente cercava attraverso l’analisi con Bion? In altri termini, si potrebbe pensare che fosse alla ricerca della possibilità di conseguire una posizione trascendente (Grotstein, 2007), dopo aver attraversato la drammaticità di PS e D; o comunque, che fosse alla ricerca della possibilità di trascendere l’alienazione a cui l’aveva costretto l’ipertrofia (traumatica) di un falso Sé (Winnicott, 1965).

C.E. Mi sembrò opportuno dirgli di nuovo: “Sono Clint Eastwood Jr., sono un attore, regista e produttore di Hollywood”. Rispose con un tono apparentemente sarcastico: “In quale altro luogo si potrebbe essere tutte queste cose?”. Rimasi un poco in silenzio cercando di decidere dove andare e lui ruppe il silenzio chiedendomi: “Ha pensato di fare qualcos’altro nella vita?

E di nuovo in questo brevissimo scambio ciò che più sorprende è la questione del linguaggio. Se Clint Eastwood ribadisce la funzione svolta dai personaggi di cui è ostaggio, quale linguaggio usa invece Bion? E’ un linguaggio onirico? E’ quello dell’Effettività (Bion, 1962)? O è addirittura il linguaggio di O?

Infatti, Hollywood potrebbe essere l’unico luogo al mondo in cui una persona possa permettersi di essere contemporaneamente “tutte queste cose”: un attore, un regista e un produttore. E Hollywood è senza dubbio il luogo della fiction e del sogno americano. Bion sembra, però, evocare anche realtà e stati mentali diversi, e il “luogo” in cui possono essere ospitate “tutte queste cose” potrebbe diventare anche l’analisi: la seduta come luogo in cui Clint jr. può portare tutti i “personaggi” che compongono la sua personalità, la complicano, la tormentano oppure la coartano.

E l’analista non pare interessato a che cosa il paziente fa o dice di sapere o già conosce a proposito di se stesso; non si concentra su K, ma orienta il vertice del suo ascolto in O, in quell’O che è ancora sconosciuto, forse ancora troppo impersonale, tanto per il paziente quanto per l’analista. Bion dimostra di avere immediatamente fede nelle parole che pronuncia, le lascia nascere dalle emozioni che il paziente gli comunica e usa in modo diretto un linguaggio dell’Effettività, dove le parole non sostituiscono le azioni ma divengono il presagio di un’azione (Manica, 2020): “Ha pensato di fare qualcos’altro nella vita?”.

C.E. Confesso che quella domanda mi spaventò e allo stesso tempo mi rese felice. Nella mia lettera non avevo menzionato le motivazioni all’analisi che riguardavano il lavoro. Risposi: “Beh, per questo sono qui. Penso che dei conflitti  – ma non so quali di preciso –  mi facciano fare questa richiesta”. Ma poi non resistetti a quella che sembrava essere una divinazione e dissi che mi era venuta in mente l’immagine dell’ispezione che si effettua negli aeroporti con il metal detector. Disse, alzando di nuovo il sopracciglio: “È molto importante per l’analisi che le sia venuta in mente questa immagine. Ha a che fare con la libertà e la sicurezza. La lascerò passare dalla mia ispezione e intraprendere l’analisi con me. Ma passeremo la sua di ispezione? Non possiamo saperlo, solo il tempo ce lo dirà”.

Come Bion ha detto nel 1974 ci devono essere due persone “spaventate” nella stanza perché possa generarsi qualcosa di “nuovo”: e come ci ha  suggerito attraverso l‘apologo dei bugiardi (Bion, 1970), c’è una quota di invenzione/illusione – o di bugia –  che preserva da una Verità intollerabile e a cui la razza umana deve la propria sanità e la propria salvezza.

Clint Eastwood aveva sperimentato attraverso la domanda dell’analista il terrore del cambiamento e della catastrofe, ma si era anche sentito “felice” della possibilità di intravedere una nuova forma di vita, fatta di maggior libertà e sicurezza. Ma l’analista avrebbe superato l’ispezione del metal detector di Clint? Sarebbe riuscito a permettergli di fidarsi del dottor Bion prima che desiderasse sbarazzarsi dell’analisi?

C.E. Qualunque cosa avesse detto, sentii che in quel momento la mia analisi era iniziata. Mi trovavo di fronte una persona sensibile e riflessiva, alla quale potevo dire ciò che volevo. “Dottor Bion, grazie di avermi accolto. Ho sempre pensato che il cinema mi desse libertà, perché mi occupo di immagini visive e musica. Farò tutto il necessario per aiutarmi”. Disse: “Continui a essere sincero e a dire qualunque cosa le venga in mente. Non si preoccupi di urtare la mia sensibilità o di altro. Ci dedicheremo all’incontro con Clint Eastwood”. Poi si prese una pausa e concluse: “Junior”.

Al di là delle regole fondamentali, è allora questo il modo di intendere l’analisi da parte di Bion: il fuoco è centrato sulle emozioni dell’incontro, e l’analista è un artista (Bion, 1978): è un pittore, o un poeta che deve riuscire a coglierne la musicalità e i colori, per poter diventare la verità del paziente e permettergli così di scoprirsi e di incontrarsi con se stesso, con la persona che è stato e con la persona che non ha potuto essere. Allora a Bion interessa incontrare Clint Eastwood e che Clint Eastwood possa incontrare se stesso, compreso Clint Junior. E’ una pausa da attore, da sceneggiatore teatrale, quasi shakespeariana, quella che Bion fa precedere al pronunciamento di quel “Junior”. E non sembra rimandare all’intenzione di depotenziare l’eventuale grandiosità del Sé di Clint Eastwood per sottrarsi al rischio di un transfert idealizzante o speculare. Al contrario, Bion pare sintonizzarsi con la parte junior di Clint per sottrarla a un’inesauribile costrizione al successo, al cliché del duro e del violento, ma anche alla dimensione archetipica del puer  (Jung, 1940) a cui è stato impedito di crescere, a cui è stata tolta creatività e vitalità, ma a cui è stato anche sottratto il diritto di lasciar maturare le proprie emozioni.

Jung (1940) aveva scritto:

La coscienza circondata, protetta, sostenuta o minacciata e ingannata da forze psichiche è un’esperienza primordiale dell’umanità. E’ quest’esperienza che si è proiettata nell’archetipo del fanciullo [puer][6], il quale esprime la totalità dell’uomo. Il fanciullo è l’abbandonato, è l’esposto a tutto, e al tempo stesso il divinamente potente, l’inizio insignificante e dubbioso e la fine trionfante (pp. 171-172).

C.E. Rimasi di nuovo molto colpito dalla sua sensibilità e dissi quel che avevo pensato poco prima: “Ma lei legge i pensieri? Se li legge saprà che ho pensato che, oltre a essere sensibile, lei è un vero pensatore”. “Osservi meglio Clint … Posso chiamarla Clint? Entrambi stiamo pensando e analizzando liberamente l’un l’altro. C’è un punto fra noi che è impossibile dire a chi appartenga. Quel punto, di cui non sappiamo nulla, è dove può avvenire un’evoluzione”.

E’ veramente così? In un’analisi si pensa e ci si analizza liberamente l’un l’altro? Forse no. O forse sì. Per lo meno è quanto dovrebbe accadere in un’analisi nel modo in cui ha incominciato a intenderla Bion. La mente, nella sua prospettiva, non è una monade isolata. Anzi la mente è intrinsecamente intersoggettiva, non esiste se non in presenza di un’altra mente che possa dare origine alla passione (Bion, 1963). E’ così, siamo visti come ci vede il nostro sguardo visto da qualcun altro. E questo non significa che ogni atto della nostra soggettività sia illusorio, ma dice che in ogni atto della nostra soggettività siamo entangled, siamo allacciati. Ce lo spiega la fisica quantistica (Rovelli, 2020), lo aveva intuito la filosofia husserliana. Il soggetto si compie in una matrice intersoggettiva trascendentale, nasce da quell’intersoggetto che la biologia incarna nello spazio intervilloso placentare. Lì, madre e feto sono in uno stato di entanglement, sono allacciati, e l’inconscio materno incomincia a creare l’inconscio del suo piccolo. Crea quello schermo onirico primario che renderà visibili e immaginabili, sperimentabili e sognabili, esperienze emotive che altrimenti sarebbero rese intollerabili dalla immanenza traumatica della loro realtà. E molto probabilmente è vero quanto afferma Prospero/Shakespeare alla fine della Tempesta: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno”.

Per questo, è trasformando in sogno (Ferro) che la psicoanalisi cura. E’ inconsciando  – come diceva Bion (1992) –  è nel sognare insieme (nel dreaming ensemble) di paziente e analista che può essere ricomposta quella matrice intersoggettiva (placentare) della mente che il trauma può aver  originariamente infranto e lacerato.

C.E. Rimasi in silenzio pensando: “Ecco… devo sopportare di non sapere come prendere le decisioni giuste nella mia vita. Devo tollerare questo appuntamento con le mie incertezze”. Ma il nostro colloquio era finito, lo disse indicando il suo orologio. Dato che mi piacciono gli orologi, identificai subito la marca inglese Burberry. Guardai l’orologio ed erano passati 45 minuti. Prese l’agenda da un tavolo accanto a lui e mi chiese se potevo tornare lunedì alle 13:00. Risposi che l’orario andava bene, ma rimasi molto agitato.

Qualche tempo dopo, parlandone con lui, lo sentii dire qualcosa che mi incuriosì assai: “Si tratta di una tempesta emotiva derivante dal contatto tra noi due. Accade con chiunque si permetta di esporre la sua personalità, la sua mente, la sua anima o qualunque nome gli si voglia dare. Non vi è attività in cui ciò accada più che in analisi. È un brutto affare da cui proviamo a trarre qualche profitto”.

Bion (1987 [1976]) ha attirato la nostra attenzione sul fatto che, per quanto la stanza d’analisi possa sembrare uno “specchio d’acqua trasparente e tranquillo”, sia invece un luogo in cui accadono soltanto turbolenze. Qualsiasi decisione, così come qualsiasi cesura (come ad esempio la nascita, l’adolescenza, la vecchiaia o la morte), determinano turbolenze. E per poter attuare delle scelte bisogna “essere sufficientemente tolleranti da poter guardare il tumulto emotivo (p. 217)”. E’ all’interno della turbolenza che si possono individuare gli eventi di una situazione sconosciuta, senza sottrarsi al vuoto e all’incertezza riempiendoli con quelle che Freud chiamava “false memorie” o paramnesie. E tanto il paziente nel suo turbamento quanto l’analista nell’esercizio della sua professione devono decidere se rinunciare alla curiosità e a continuare a porsi domande o se ricorrere a dei riempitivi (fossero anche delle teorie) che non si possono distinguere da una paramnesia. Certo, è un “brutto affare” ma da cui si prova a trarre qualche profitto. Come abbiamo già ricordato Bion (1992) aveva detto: “L’unica cosa importante in ogni seduta è l’ignoto. Non si deve permettere a niente di distrarsi dall’intuizione di esso […] In ogni seduta ha luogo un’evoluzione. Dal buio e dall’informe evolve qualcosa (p. 288)”. E ci aveva indicato come fosse proprio questa evoluzione ciò che l’analista deve essere pronto a interpretare.

E sempre a proposito di “brutti affari”, da una diversa prospettiva Jung (1940) aveva osservato:

La prima forma del [puer] è perlopiù completamente inconscia. In questo caso c’è nel paziente un’identificazione con il suo personale infantilismo […] L’ulteriore processo di trasformazione corrisponde a quello del mito dell’eroe […] E’ perlopiù in questo stadio che si costituisce un’identità con il ruolo dell’eroe, attraente per vari motivi. Tale identità è spesso molto tenace e preoccupante dal punto di vista dell’equilibrio psichico […] Se si riesce a superare felicemente lo scoglio della seconda identificazione, si è in grado di distinguere nettamente lo svolgimento cosciente da quello inconscio e di osservare quest’ultimo in modo obiettivo. Da qui deriva la possibilità di confrontarsi con l’inconscio e di operare una sintesi tra gli elementi coscienti e inconsci del conoscere e dell’agire. E da qui si origina a sua volta lo spostamento del centro della personalità dall’Io al Sé (pp. 173-174)

C.E. Fu un punto assurdamente fondamentale nella mia analisi. Trarre un profitto dai brutti affari implicava prendere decisioni in cui dovevi tenere alcune cose ed eliminarne delle altre per continuare a creare.

Sono entrato in politica per un po’ assumendo la carica di sindaco della città di Carmel. Le mie attività divennero così negli anni, stavo migliorando e mi assumevo il rischio di fare cattivi affari, ma che hanno dato i loro frutti. Affrontando la mia tristezza, ho scoperto che cosa fosse la felicità. Osservando la mia ignoranza, ho scoperto che cosa significasse essere saggi. Ho scoperto la mia delicatezza vedendo la mia violenza.

Attraversando “notti oscure dell’anima”, la tristezza, l’ignoranza, la violenza, come il san Giovanni della Croce a cui Bion (1965) si riferisce in Trasformazioni, Clint Eastwood sembra così scoprire e diventare anche l’altra metà della propria anima: quell’O da cui era sempre fuggito, temendo di correre il rischio di fare “brutti affari”.

Non sappiamo se l’analisi con Bion abbia veramente guarito Clint Eastwood. Ma quello che possiamo ragionevolmente supporre è che l’abbia curato. Nella seconda parte della sua vita, i suoi film diventano più intensi, più tragici, ma anche più poetici e intimamente risonanti. Per esempio, nel 1995 gira e interpreta una toccante e romantica vicenda d’amore, I ponti di Madison County: la storia di un amore autentico e travolgente, incompiuto e impossibile, che viene scoperto soltanto dopo la morte dei protagonisti. Nel 2003, dirige, produce e musica Mystic River, un noir spregiudicato in cui tre uomini che furono amici da ragazzi in un quartiere degradato di Boston si ritrovano dopo molti anni; e il film racconta di come la vita trasformi in modo allucinante e segni tragicamente il destino di un’amicizia e delle loro esistenze. Nel 2005, vince quattro Premi Oscar con Million Dollar Baby, dove mette in scena il disperato tentativo di un anziano allenatore di boxe di riparare il proprio fallimento come figura paterna: ripudiato dalla figlia per il suo comportamento chiuso e scorbutico, “adotta” sportivamente una ragazza poverissima che riesce a portare alle soglie del titolo mondiale dei pesi Welter. Ma sul ring, per una scorrettezza dell’avversaria, Maggie ha un incidente gravissimo che la rende per sempre tetraplegica. Dopo averla paternamente assistita il vecchio allenatore, accetta il desiderio di Maggie di porre fine alla propria vita e si assume in prima persona il compito di praticarle l’eutanasia, dopo averle manifestato tutto il suo affetto e aver deciso di scomparire  nel nulla. Nel 2008, dirige, interpreta, produce e musica Gran Torino, dove è di nuovo un anziano solitario, scorbutico e razzista, reduce della guerra di Corea. Nella sua esistenza metodica e ripetitiva è disturbato dalla presenza dei vicini e in particolare perché asiatici. Si trova però per una serie di circostanze a proteggere prima Thao il figlio della famiglia dei vicini, poi la sorella Sue dalle violenze di una gang di teppisti che imperversa nel quartiere e infine si fa carico della protezione dell’intera famiglia. La tensione e la violenza continuano però a crescere e il vecchio reduce decide di compiere un gesto che possa mettere fine al predominio dei teppisti. Raggiunge il loro covo, e fingendo di estrarre un’arma dalla tasca, li induce a sparargli e a ucciderlo, facendo sì che vengano definitivamente arrestati. Nel testamento lascia in eredità a Thao la cosa che aveva più cara: una splendida Ford Gran Torino.

Infine nel 2018, a ottantotto anni, dopo aver diretto e interpretato altre pellicole di successo, decide di nuovo di produrre, interpretare e dirigere un film che forse rappresenta l’opera emotivamente (e oniricamente) più autobiografica della sua carriera artistica: Il corriere-The Mule. Ormai, Clint Eastwood non è più soltanto un attore, ma si trasforma in un artista[7], diventa cioè l’autentico autore della propria vita emozionale: della propria tristezza e della propria gioia; della propria ignoranza e della propria saggezza; della propria violenza e della propria delicatezza.

E in The Mule (tratto dalla storia vera di Leo Sharp) è di nuovo un veterano della guerra di Corea, solitario e misantropo, divorato da un interesse narcisistico e ossessivo per la floricoltura. E’ questa, oltre alla guida del suo pick-up, la vera passione che incendia la sua vita e lo aliena dai legami più veri: quello con la moglie, con la figlia e sostanzialmente con l’intera famiglia.

Così quando la sua azienda viene pignorata, si lascia coinvolgere quasi per caso da un amico e diviene il corriere per il cartello della droga di Sinaloa. Al di là di qualsiasi preoccupazione etica, attraversa l’America con il suo amato pick-up,, sinché la malattia della ex moglie non lo riporta a casa per assisterla negli ultimi giorni di vita e partecipare al suo funerale. Forse per la prima volta, affetti autentici e profondi incrinano la sua ossessione autarchica. Manca la consegna di un trasporto di droga e rischia di essere ucciso dalla banda criminale, ma in qualche modo il boss del cartello lo perdona e gli affida il trasporto più clamoroso che sia stato mai realizzato. L’FBI è però ormai sulle sue tracce ed Earl viene arrestato. In carcere, ritrova gli affetti familiari e può tornare di nuovo a dedicarsi alla floricoltura.

Nella metafora dell’epilogo di The Mule, Earl è l’immagine di un Clint Eastwood finalmente placato e guarito? I suoi Sé, ancora in un drammatico conflitto in Mystic River (il boss della mafia, il poliziotto e l’uomo fragile e abusato), possono finalmente coesistere in pace, seppure con un certo grado di dissociazione? Forse nella metafora del “carcere” narcisismo e socialismo (Bion, 1992), spinte egoistiche e spinte altruistiche, nuclei narcisistici e aspetti antinarcisistici e relazionali (Racamier, 1980), colpa e riparazione possono realizzare una forma di convivenza tollerabile. Forse anche un “cattivo affare ha dato i suoi frutti”. Del resto, tanto Ogden (1989) quanto Greenberg (1991), pur seguendo percorsi teorici e clinici differenti, erano giunti alla conclusione convergente secondo cui il paziente al termine dell’analisi ha un’esperienza di sé e degli oggetti più ricca, più ampia, ma non necessariamente più omogenea e coesa (Manica, 2020).

C.E. Ho riassunto tutto questo in una recente conversazione che ho avuto con Toby Keith, che è mio amico e cantautore, con cui gioco a golf. Gli ho detto che la settimana successiva avrei compiuto 88 anni e lui mi ha chiesto che cosa avrei fatto. Ho risposto: sto per iniziare a fare un film. “Ma come fai?”, mi disse, come a criticarmi per essere lì a fare progetti stressanti a quell’età. Gli ho risposto: “Non lascio entrare il vecchio” … Pare che la mia risposta abbia generato una di quelle turbolenze di cui parlava il dottor Bion. Toby ha composto la musica per il mio film The Mule. Mi manca così tanto il dottor Bion.


Bibliografia 

Bion, W.R. (1961): Esperienze nei gruppi. Armando, Roma, 1971.

Bion, W.R. (1962): Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972.

Bion, W.R. (1963): Gli elementi della psicoanalisi. Armando, Roma, 1973.

Bion, W.R. (1965): Trasformazioni. Armando, Roma, 1973.

Bion, W.R. (1970): Attenzione ed interpretazione. Armando, Roma, 1973.

Bion, W.R. (1978): Seminario di Parigi.

Bion, W.R. (1987): Seminari clinici. Brasilia e San Paolo. Cortina, Milano, 1989.

Bion, W.R (1992): Cogitations. Pensieri. Armando, Roma, 1996.

Greenberg, J.R. (1991): Oedipus and Beyond. A Clinical Theory. Harvard University Press, Cambridge, Mass.

Grotstein, J.S. (2007): Un raggio di intensa oscurità. Cortina, Milano, 2010.

Jung, C.G. (1939): Lettere. Magi, Roma, 2006.

Jung, C.G. (1940): Psicologia dell’archetipo del Fanciullo. In Opere, vol. 9, I, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.

Levine, H.L. e Civitarese, G. a cura di, (2016): The W.R. Bion Tradition. Lines of Development – Evolution of Theory and Practice over the Decades. Routledge, London.

Manica, M. (2020): Psicoanalisi del traumatico. Alpes, Roma.

Ogden, T.H. (1989): Il limite primigenio dell’esperienza. Astrolabio, Roma, 1992.

Racamier  P.C. (1980): Gli schizofrenici. Cortina, Milano, 1983.

Rovelli, C. (2020): Helgoland. Adelphi, Milano.

Winnicott, D.W. (1965): Sviluppo affettivo e ambiente. Armando, Roma, 1970.

 


Note

[1] Unconscioused (Bion, 1992, p. 349).

[2] Identijected (Bion, 1992, p. 349).

[3] Clint Eastwood parla della sua esperienza di analisi (vera o presunta che sia) con Wilfred Bion (4 aprile 2020). Fonte: Espacio Psicoanalítico de Barcelona – EPBCN. Traduzione italiana di Davide Rosso e Gabriele Cassullo.

[4] Nella traduzione italiana la frase è stata cambiata in “Coraggio…fatti ammazzare” ed è diventata anche il titolo del film.

[5] Una nekya è un viaggio negli inferi.

[6] L’inserto tra parentesi quadre è mio.

[7] Penso che tutti ricordiamo il noto scambio di battute avvenuto tra Bion e Resnik durante il Seminario di Parigi (1978):

Bion: […] Che genere di artista siete? Siete un vasaio? Un pittore? Un musicista? Uno scrittore? Secondo la mia esperienza numerosissimi analisti non sanno realmente che tipo di artisti sono.

Dr. Resnik: E se non sono artisti?

Bion: Allora hanno sbagliato mestiere. Non so quale sia il mestiere giusto, perché anche se non si fosse psicoanalisti si dovrebbe essere comunque artisti nella vita.

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